Cap.32
Pensavo che fossero passati secoli, invece Michael era fuori soltanto da un paio
di minuti.
Fissavo l’orologio della stanza, la lancetta dei secondi che avanzava
velocemente, quella dei minuti che si muoveva in base ai movimenti rapidi di
quella dei secondi, quella delle ore, la più lenta di tutti, attende il suo
momento aspettando la mossa delle altre due.
E’ così che va la vita a volte, dobbiamo dipendere dalle scelte degli altri.
“Marika…”
Micahel si ripresentò da me con un’espressione stravolta, come se gli avessero
appena dato un pugno nello stomaco.
“Ha cambiato numero di cellulare, parte il messaggio che il numero è
inesistente”
Ed è in quel momento che realizzai che lui si è comportato come la lancetta
delle ore di un orologio fermo, quella dei secondi non si spostava più, perché
avrebbe dovuto farlo lui?
Sono le conseguenze delle nostre azioni che portano avanti le decisioni delle
persone coinvolte con il nostro destino.
La lancetta dell’orologio nella mia stanza continuava ad andare avanti, non mi
aspettava più nel mio dolore, e proprio come Zip, aveva sopportato troppo i miei
capricci. Non potevo biasimarlo.
“Ok…”
Riuscì a dire con la bocca secca e con voce rotta dalle lacrime che stavano per
scendere dai miei occhi nuovamente tristi e delusi da una illusione.
“Evidentemente doveva andare così, ce la farò da sola”
Michael appoggiato allo stipite della porta mi guardava dispiaciuto e distrutto,
forse si sentiva abbandonato anche lui come amico.
“Non sei sola, te l’ho già detto.”
“Grazie…”
Lo guardai negli occhi con reale sentimento di gratitudine, sapevo che avrei
potuto contare su di lui per qualsiasi cosa, Michael si avvicinò e si sedette
sul letto accanto a me stringendo la mia mano facendo attenzione alla flebo che
avevo nel polso.
Rimanemmo così, nel silenzio di quella stanza, solo le lancette andavano avanti
a muoversi e a ticchettare mentre il tempo scorreva.
Pochi minuti dopo Susan entrò nella stanza trafelata, aveva corso e fatto
l’impossibile per uscire dall’ufficio e vedere come stavo.
“Marika!”
Corse da me sbattendo a terra la pesante tracolla piena di fogli e block notes
abbracciandomi.
“Mi hai fatta preoccupare”
“Scusami”
“Ma quali scuse! Stai meglio vero? E’ stato solo un calo di pressione vero?”
Susan cercava in me delle risposte che dentro di lei forse già sapeva, non avevo
il coraggio di rispondere a parole, il mio sguardo spento aveva già risposto al
posto della mia voce. Lo sguardo di Susan andava dal mio a quello di Michael
veloce come una scheggia.
“E’ a rischio”
Nel risentire quella parola maledetta mi prese l’ansia nuovamente, tirai un
sospiro mentre Susan si portava una mano alla bocca per l’incredulità.
“Ma, come? Tu stai bene e mangi, sei in forma, non hai nulla…”
Mi guardava incredula stringendo la mia mano, il mio sguardo spento si perdeva
nei suoi occhi verdi e premurosi.
“Io non sto bene Susan, aiutami”
Una lacrima silenziosa mi rigò il volto, Susan mi abbracciò forte.
“Farò tutto quello che mi è possibile per aiutarti”
E proprio in quel momento fece il suo ingresso un dottore.
“Signorina Smith, mi fa piacere vederla sveglia, come si sente?”
Michael e Susan si alzarono dal letto facendo spazio al dottore di cui avevo
riconosciuto la voce, che senza neanche aspettare la mia risposta mi stava
stringendo al braccio l’attrezzo per misurare la pressione.
“Bene”
Ormai le mie frasi si erano ridotte a monosillabi, dopo aver scoperto che la mia
gravidanza era a rischio e che Zip aveva cambiato numero di telefono per
staccare definitivamente con la sua “vecchia vita”, non avevo più motivo di
essere sorridente e speranzosa come sempre, le uniche speranze che avevo le
custodivo gelosamente per il mio piccolo.
“La pressione si è alzata, le flebo cominciano a fare effetto, la terremo una
notte qui in osservazione, domani mattina può lasciare l’ospedale, il suo amico
le ha già spiegato tutto?”
Il dottore guardò prima lui e poi me, come a conferma della frase che aveva
appena detto.
“Si”
“Bene, la lascio riposare, per qualsiasi cosa mi chiami, signori mi dispiace
dirvelo, ma tra poco vi devo chiedere di lasciare la signorina Smith, ha bisogno
di riposo”
“Certo dottore, grazie mille”
Il dottore se andò con passo svelto fuori dalla stanza chiamato forse da un
altro paziente.
“I miei!”
Esclamai, Michael mi blocco subito rispondendo.
“Li ho già chiamati io, li ho tranquillizzati, erano molto preoccupati,
soprattutto quando ho detto loro delle novità, comunque domani verranno loro a
prenderti”
“Certo, grazie”
“Mi sa che ce ne dobbiamo andare”
Disse dispiaciuto Michael, dandomi un ultimo abbraccio, idem fece Susan.
“Qualsiasi cosa succede io corro qui in un secondo”
“Lo so Michael, ora va a casa”
“Buona notte Marika”
Susan mi abbraccio forte, poi se ne andarono tutti e due.
E così rimasi sola un’altra volta.
Portai la mia mano fredda al ventre, accarezzandolo dolcemente come sempre.
“Non mi lasciare sola anche tu”
Dissi in un filo di voce, con la testa ripiegata sul petto.
“Resta con la mamma, non ti farò mancare nulla, te lo prometto, saremo felici,
anche Michael e Susan ci aiuteranno, ti piaceranno, e poi ci sono quei pazzi
scatenati dei tuoi nonni”
Mi spuntò un sorriso pensando a loro, mentre l’ennesima lacrima silenziosa
rigava la mia guancia.
“Loro ti vogliono già tanto bene, vedrai che ti faranno fare un sacco di risate,
saremo felici, si.”
Era tardi, le luci dei corridoi si spengevano idem per quelle delle stanze,
lasciando accesa appena un freddo neon che stava sopra la mia testa che serviva
a mo di abatjour.
Presa dalla sensazione di solitudine e di attaccamento che avevo ora più che mai
nei confronti di mio figlio, rimasi immobile così per lunghi minuti, mentre
l’unico rumore presente erano le lancette che andavano avanti, e avanti. Tic,
tic, tic..
Non sopportando più quell’angosciante rumore, e continuando a tenere la mani sul
mio ventre sentì come qualcosa che si muoveva dentro di me, come una scossa, la
sentì chiara dentro al mio ventre. Le mie mani l’avevano percepita. Era lui.
“Oddio…”
Riuscì a mormorare, lui c’era e si muoveva dentro di me, e per la prima volta in
quattro mesi che mi dava un cenno, lo percepì immediatamente come un suo segno,
come per dire che anche lui voleva stare con me, e che mi voleva bene.
“Lo so tesoro…”
Quella volta fu una lacrima di commozione e felicità a rigare la mia guancia, un
sorriso si delineò sulle me labbra, e come una mamma che deve far addormentare
il suo bambino fra le sue braccia, iniziai a canticchiare a bassa voce la ninna
nanna che cantava mia madre quando ero piccola.
Le lancette che ora procedevano inesorabili ora eravamo io e lui. E dovevamo
farcela. Senza aspettare nessun’altro. Dovevamo andare avanti per noi.
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