I
PRIMI ANNI DELLE ELEMENTARI
La mia
nonna paterna era morta di parto alla nascita di mio padre. Di
fondo, mio padre era un uomo molto fragile e si attaccò morbosamente a
mio nonno, Anthony, l’unico genitore rimastogli. Anche lo zio Casper
voleva molto bene ad Anthony, ma lui e mio padre avevano un rapporto
davvero speciale: mio nonno veniva a trovarci ogni giorno, lo aiutava ad
arrivare a fine mese quando le cose si facevano difficili, lo aveva
aiutato a smettere di bere nei suoi momenti peggiori. Per
Gregory, mio padre, la presenza del nonno era un qualcosa di
indispensabile, un punto di riferimento che lo faceva vivere piu’
serenamente.
Quando
morì, di cancro ai polmoni a causa del troppo fumo, mio padre sprofondò
nella depressione piu’ nera. Era il 1986 e io avevo
appena iniziato le elementari. Mio padre non voleva piu’ alzarsi dal
letto la mattina per andare a lavorare; ricordo che a volte quando
entravo in cucina per bere un po’ di latte prima di andare a scuola,
lo trovavo sprofondato sul divano con una lattina di birra in mano,
completamente sbronzo già a prima mattina.
Aveva
ricominciato a bere. Un sacco di soldi li buttava via così, comprando
bottiglie su bottiglie; inizialmente mia madre faceva finta di nulla,
chiusa nel suo mondo. Credo che avesse molta paura. Paura di come
stavano andando le cose, paura di soffrire, paura di mio padre. Quando
esagerava con l’alcool diventava scorbutico, irascibile, intrattabile.
Quante
sere me ne stavo rintanata nella mia cameretta tappandomi le orecchie
per non sentire i loro litigi, le bottiglie rotte, i piatti infranti…
una volta un moto di rabbia mi animò, scesi dal mio letto e armandomi
di coraggio mi diressi in cucina… la scena che trovai mi restò
impressa nella mente. Mia madre che fermava con le mani le braccia di
mio padre, che le aveva appena tirato uno schiaffo. Sentii le lacrime
bruciarmi gli occhi mentre mio padre mi urlava di tornarmene in camera
mia.
Purtroppo
quelle scene, a lungo andare, iniziarono a diventare la routine e io non
riuscivo a concentrarmi a scuola, con nelle orecchie il rimbombo delle
bottiglie rotte a terra con violenza da parte di mio padre e
l’eco degli urli di mia madre.
Quando
uscivo di scuola e m’incamminavo per tornare a casa a piedi, vedevo le
mamme delle altre bambine andare a prenderle con un sorriso e mi sentivo
un nodo alla gola. Avrei voluto vedere anche la mia lì, invece sapevo
che lei era a casa a ricamare cappelli con le lacrime che le scendevano
lungo le guance mentre mio padre guardava la cronaca sportiva alla TV,
con un bicchiere di vino rosso scadente sul tavolo della cucina.
In
particolare, nella mia classe c’era una bambina che mi incuriosiva
particolarmente. Forse in un certo senso l’invidiavo, ma il mio non
era un sentimento cattivo, non provavo risentimento verso di lei. Avrei
solo voluto essere lei, per una settimana magari, nulla piu’. Staccare
la spina, togliermi di dosso quella situazione difficile.
Lei
era un po’ l’icona di ciò che avrei voluto essere io. Si
chiamava Ivy Mercer, era una bambina di un anno piu’ grande di me, coi
capelli biondi e ricci e gli occhi azzurri. La trovavo semplicemente
perfetta. La riconoscevo per il ticchettio che faceva quando camminava
con le sue decollété bianche. Fantasticavo su come sarebbe stato bello
fare la hostess di terra e indossare le decollété bianche di Ivy
Mercer. Mi piacevano un sacco questo genere di stronzate, quando avevo 7
anni.
Un
giorno incrociai la Volvo verde di sua madre, appena fuori da scuola.
Con i libri della biblioteca in mano, pensai di chiedere gentilmente
alla signora Mercer se non le dispiacesse darmi un passaggio fino a
casa, sì sto in quel palazzone in Canterbury Street. Lungo il tragitto
verso il mio quartiere le avrei detto quanto ammiravo sua figlia. Perché
l’ammiravo sul serio, Ivy. E poi diciamocelo, mi rendeva verde
dall’invidia.
Mi
piacevano così tanto i suoi pantaloni di velluto a coste. Quando uscì
dall’atrio, vidi che aveva la fronte corrugata come se fosse tutta
concentrata su chissà cosa. Non so se avesse mai sentito suo padre
spaccare bottiglie di whisky sul pavimento della cucina.
Suo
padre ai miei occhi era una specie di divo della tv. Faceva parte di uno
schieramento politico ed era piuttosto famoso lì nella periferia. Sua
madre da giovane era stata una modella, però io la trovavo ancora
bellissima. Si allungava le ciglia col mascara e quando le sbatteva mi
stupivo che non restassero incollate.
Sapevo
tutto della sua famiglia perché ogni volta che il giornale locale
pubblicava uno di quegli articoli della serie “I VIP della nostra città”,
c’era una grande fotografia della famiglia Mercer nella loro casa bene
arredata.
Rimase
a guardare Ivy uscire dalla scuola. Colsi l’immagine della signora
Mercer che scompigliava comprensiva i capelli di Ivy, come per dire:
E’ quasi fatta, tesoro, presto sarai fuori di qui, da questa schifosa
scuola pubblica di periferia.
La
settimana seguente seguii Ivy nel parcheggio tutti i giorni. Indugiavo,
senza sapere bene cosa volessi dirle. La guardavo soltanto, mentre
aspettavo che la venissero a prendere. Saliva sulla
Volvo verde col suo allegro zainetto di tela sulle spalle e baciava la
madre sulla guancia. Forse le diceva: quella è la bambina che ruba le
matite durante la ricreazione. Credo che diventerà una vandala o
qualcosa del genere.
Restai
sulla panchina fuori dalla scuola, aspettando che uscisse anche lei.
Sulle mie ginocchia era appoggiato Lord Jim. Dovevo scrivere una
ricerca di inglese. Sottolineare sul libro le parole che parlavano del
tema a) dell’uomo contro la natura; b) dell’uomo contro l’uomo.
Era un lavoro difficile, da ragazzine piu’ grande. La mia insegnante
dicevo che ero particolarmente dotata, quella ricerca serviva per
inserirmi nel gruppo di potenziamento. Ma non ero tanto in vena di
studiare, a dire la verità. Chi se ne frega di Lord
Jim. Avevo passato tutto l’anno a leggere le avventure eroiche di
Beowulf e Amleto e Robert Plant. Zio Casper mi teneva in braccio e mi
faceva ascoltare i Led Zeppelin, mentre con l’altra mano portava alla
bocca una grossa sigaretta, che piu’ avanti imparai fosse marijuana.
Mi raccontava col suo modo dolce e rassicurante le commedie di
Shakespeare, le grandiose leggende celtiche. Era il mio insegnante
preferito, lo zio Casper. Ma quel giorno ne avevo abbastanza di leggere
di vittorie altrui sugli ostacoli della vita, quando la mia mi pareva
tanto difficile e insuperabile. Lanciai Lord Jim contro le
inferriate della finestra.
‘Ciao,
Ivy’ le dissi quel giorno all’entrata di scuola. Mi ero fatta
coraggio. Lei abbassò lo sguardo sulla camicetta perfettamente stirata,
non sorrise né fece alcun gesto. Come tutte le bambine per bene, non
voleva avere niente a che fare con me. Con le mie unghie mangiucchiate e
i capelli tagliati male. Nulla a che fare.
In
quel momento, vidi arrivare sua madre. La salutai con la mano. Lei
indossava una folta pelliccia che mi impressionò un sacco. Per un
attimo pensai che fosse qualcosa tipo una regina in incognito. Mi
sembrava impossibile che una signora normale potesse indossare una
pelliccia. Era qualcosa per famiglie reali.
Alzò
lo sguardo su di me. Non aveva la minima idea di chi fossi. Fissò i
miei blue jeans. Mi vergognai di averli addosso, capii che probabilmente
non li giudicava adatti ad una bambina. Erano ‘da maschiaccio’.
“Conosco
sua figlia. Conosco Ivy. Come sta?” esordii. “Sta bene.
Impegnata.” fu la sua secca risposta. Il suo modo di fare così duro
mi intimidì. Improvvisamente desiderai che si aprisse un varco sotto le
mie gambe per sparire di lì. Ma ormai ero davanti alla signora Mercer.
“Dov’è
quella scuola dove vuole andare Ivy? Ho sentito dire che vuole studiare
poesia, come Sylvia Plath. Conosce Sylvia Plath?” domandai, con
l’innocenza dei miei 7 anni. La signora Mercer sembrava quasi offesa.
“Certo che la conosco” rispose, sempre dura. “La scuola di Ivy sta
a Liverpool”. Sbarrai gli occhi. Non ero mai stata oltre ai quartieri
dove ero nata. Andare persino a Liverpool mi sembrava un’avventura
fantastica.
“Io…
beh, credo che Ivy sia molto fortunata” continuai, imperterrita. La
signora Mercer mi guardò strano. Ebbi paura di aver detto qualcosa di
sbagliato, inavvertitamente. “Fortunata? Si sta impegnando
moltissimo” obiettò.
“Lo
so. Cioè, lo so che è intelligente, Ivy. E’ per questo che è
fortunata, ad andarsene da questo quartiere del cazzo”. Le parole mi
scapparono di bocca. Non volevo essere maleducata, no davvero. Era
semplicemente quello che pensavo. La mia voce aveva il tono piu’
candidamente sincero che si possa immaginare.
Non
sapevo piu’ cosa dire. Si capiva che la signora Mercer non gradiva il
mio aspetto, i miei lunghi capelli spettinati, l’herpes al labbro e le
unghie mangiucchiate. Vicino a lei all’improvviso mi sentii timida.
Non riuscivo a credere di aver preso in considerazione l’idea di
chiederle un passaggio appena pochi minuti prima. Era totalmente fuori
discussione. Il modo in cui mi guardava, la collana di perle al collo,
la perfetta sagoma delle labbra truccate di rosso; no, proprio non
potevo accostarmi ad una come lei.
Beh,
volevo solo dirle di portare i miei saluti ad Ivy, dopotutto. Di farle
un in bocca al lupo.
“Okay,
glielo dirò. Come ti chiami?” chiese, infastidita.
“Io…
Melissa.”
“Va
bene… Melissa. Riferirò”. Non sorrise o altro, e mi diede
un’occhiata eloquente, come se, mentre mi guardava, riuscisse a vedere
il taglio sotto ai piedi per aver calpestato i resti di una delle
bottiglie che mio padre scagliava contro il muro, l’incarto delle
caramelle che avevo rubato al supermercato di fronte infilato negli
stivaletti e il fatto che non avessi mai finito il mio compito su Lord
Jim.
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