- IL DIARIO DI MELISSA -

( Ex fidanzata di Donald Carter)

 

LA MORTE DEI MIEI GENITORI

Col passare del tempo, la situazione di mio padre con l’alcool non dava cenni di miglioramento, e i suoi rapporti con mia madre erano sempre piu’ tesi.

Quando tornavo a casa da scuola, per pranzo, mi ritrovavo mio padre stravaccato sul divano con la solita birra in mano, mamma chiusa presumibilmente in camera, la tavola da sparecchiare e la  mia porzione di pasticcio fredda, perché nessuno si era preoccupato di metterla in caldo per me. Fare i compiti era impossibile, con la tv a tutto volume che papà non voleva assolutamente abbassare e i pensieri che mi tormentavano la testa.

Mi sentivo trascurata, abbandonata. Volevo che le cose fra loro si sistemassero. Volevo vederli felici, perché se loro fossero stati felici avrebbero fatto felice anche me, è così che funziona.

Ma in loro non vedevo mai il bagliore di un sorriso felice. La nostra casa era incredibilmente cupa. A nulla servivano i miei disegni colorati appesi al frigo o il tessuto di un rosso vivace del divano. Si respirava l’atmosfera dell’infelicità, era un qualcosa di palpabile nell’aria.

L’episodio che mi fece nettamente capire come avessimo toccato il fondo fu quando mia madre perse veramente le staffe. Era ora di cena e quello fu il litigio piu’ brutto che ricordi tra i miei genitori.

Quella sera la zuppa sapeva di bruciato; pezzi di bietola nera che galleggiavano nel verde. Sulla zuppiera di porcellana c’erano delle rose finemente dipinte. Fingevo di esserne particolarmente interessata e le fissavo senza distogliere gli occhi, volevo farmi piccola piccola, mentre la tensione nell’aria preannunciava l’ennesima lite fra i miei.

A casa nostra tutto era di seconda mano, tranne i piatti del servizio buono. La madre di Alexandra, mia mamma, li aveva dati ai miei genitori come regalo di nozze, in quei pochi ‘incontri di famiglia’ che fecero insieme.

La leggenda vuole che dopo il matrimonio, celebrato in comune con un gruppo sparuto di amici e ovviamente l’immancabile zio Casper nei panni del testimone di nozze, mia madre avesse cercato di spaccare tutti i suoi regali di nozze. Appena sposati, si erano fatti di acido nella camera d’albergo scelta per la luna di miele. Mio padre aveva cercato di fermarla, ma lei era sotto trip. Pensava che le tazze fossero uccelli che tentavano di volare. Scaraventò la porcellana contro le pareti a cuori rossi. Diceva che i cocci erano stupendi. Le schegge bianche sembrano cigni.

Credo che quella sera, nel nostro appartamento all’undicesimo piano, la sua faccia non fosse molto diversa da quella che aveva dovuto avere in quella famosa notte. Buttò a terra bicchieri e posate e fece volare la tovaglia, urlò a mio padre che era un irresponsabile, un fallito, un immaturo. Al fragore dei piatti rotti a terra si sommavano le bestemmie di mio padre,  e le urla di mia madre che quasi perse la voce. Non l’avevo mai vista perdere il controllo così. Lei riusciva sempre a mantenere un minimo di calma. Quella volta no. Quella volta era saltato anche l’ultimo appiglio di normalità a cui mi aggrappavo disperatamente per tenere insieme i cocci della mia famiglia. Non capivo bene il significato di quelle parole dure che mia madre urlò a papà, ma il messaggio che portavano era chiaro: qualcosa fra loro due si era spezzato; qualcosa che non si sarebbe ricucito mai piu’.

 

Arrivò maggio e questo mi rese un po’ meno infelice, era l’unico mese in cui un timido sole sbocciava fra le nubi grigie di Londra. Era lo splendore della primavera, e nel grigiore del mio quartiere ogni tanto potevo cogliere la bellezza di un piccolo fiore. Tutte queste piccole cose sono sempre state la felicità di un bambino, ma nella situazione difficile in cui mi trovavo non potevo assaporarle come avrei voluto. Quando camminavo per il marciapiede lungo la strada che portava al mio palazzone, mi si attorcigliava lo stomaco perché non volevo entrare in quell’appartamento e trovarmi di fronte la stessa infelice scena. Da quella sera in cui mia madre impazzì, andai sempre a pranzo da zio Casper. Non avevo preso precisamente una decisione. Non ci avevo pensato tu. Lo feci e basta. I miei piedi si fermarono solo davanti la porta della casa di Casper. Con lui mi sentivo al sicuro. Mi faceva sempre qualcosina di buono da mangiare e mi insegnava a pelare le patate e preparare la verdura per il contorno. Mi aiutava a fare i compiti, dopo mangiavo si sedeva accanto a me e mi spiegava la matematica oppure mi leggeva qualche brano della mia antologia. Mi insegnava il significato delle parole che non conoscevo, mi aiutava a colorare la cartina di geografia fatta a mano con la carta da lucido.

La casa dello zio Casper era la mia piccola oasi di felicità. I miei tutto sommato erano contenti che andassi da lui, perché sapevano che lì stavo bene; ma credo che sia stato un dispiacere immenso per loro constatare ormai alla luce del sole il loro fallimento come genitori. Credo che mia madre abbia pianto tanto in quelle notti. Mi dispiace non esser mai andata a baciarla la mattina appena svegliata, non aver avuto l’occasione di dirle quello che nella mia testolina pensavo; pensavo che anche se le cose non andavano tanto bene fra lei e papà, io la trovavo la mamma piu’ bella di tutti, e il mio papi sapeva raccontare le barzellette piu’ divertenti, avremmo potuto farci un sacco di risate insieme, avrei potuto imparare a decorare cappelli, avrei potuto attaccare i bottoni e le paillettes per aiutarla o comprare riviste di motori al papà. Avrei voluto fare un sacco di cose. Il tempo non me lo permise, perché me li strappò via prima che riuscissi a fare qualunque cosa: nel maggio del 1987 i miei genitori morirono in un incidente stradale. Mio padre aveva bevuto, come sempre; erano andati a trovare dei vecchi amici della mamma e, nella strada del ritorno, mio padre si era schiantato contro un muro. Non l’aveva proprio visto. Ci era finito dritto addosso, centrato in pieno. Il cofano e l’abitacolo della macchina praticamente non esistevano piu’. La vidi, la nostra macchina accartocciata su se stessa. E’ un immagine che non mi si toglierà mai dalla mente.

Ricordo perfettamente il momento in cui mio zio entrò nel mio appartamento per prendermi definitivamente con sé. Ero tornata a casa dal rientro a scuola e non avevo trovato nessuno, così mi ero messa a disegnare con le gambe che dondolavano dalla sedia del tavolo della cucina. Quando lo vidi entrare, mi resi subito conto che era successo qualcosa. Non gli avevo mai visto quell’espressione in viso. Come descriverla? Era un misto di dolore e rimpianto, ma soprattutto di partecipazione, partecipazione al mio dolore, a quello che avrei realizzato pienamente quando sarei cresciuta, alla perdita enorme che mi aveva riservato il destino. Dev’essere stato un momento difficilissimo per lui. Come spiegare a tua nipote di non ancora 8 anni che i suoi genitori non ci sono piu’? Che non li vedrà mai piu’? Che è rimasta da sola? Come?

Mi sedetti sul pavimento, a un angolo della stanza, schiacciandomi la testa fra le ginocchia.

Eccomi qua, nella mia casa tranquilla, senza mamma e papà.

Il frigo emise un ronzio.

 

 

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