Col
passare del tempo, la situazione di mio padre con l’alcool non
dava cenni di miglioramento, e i suoi rapporti con mia madre erano
sempre piu’ tesi.
Quando
tornavo a casa da scuola, per pranzo, mi ritrovavo mio padre stravaccato
sul divano con la solita birra in mano, mamma chiusa
presumibilmente in camera, la tavola da sparecchiare e la
mia porzione di pasticcio fredda, perché nessuno si era
preoccupato di metterla in caldo per me. Fare i compiti era
impossibile, con la tv a tutto volume che papà non voleva
assolutamente abbassare e i pensieri che mi tormentavano la testa.
Mi
sentivo trascurata, abbandonata. Volevo che le cose fra loro si
sistemassero. Volevo vederli felici, perché se loro fossero stati
felici avrebbero fatto felice anche me, è così che funziona.
Ma
in loro non vedevo mai il bagliore di un sorriso felice. La nostra
casa era incredibilmente cupa. A nulla servivano i miei disegni
colorati appesi al frigo o il tessuto di un rosso vivace del
divano. Si respirava l’atmosfera dell’infelicità, era un
qualcosa di palpabile nell’aria.
L’episodio
che mi fece nettamente capire come avessimo toccato il fondo fu
quando mia madre perse veramente le staffe. Era ora di cena e
quello fu il litigio piu’ brutto che ricordi tra i miei
genitori.
Quella
sera la zuppa sapeva di bruciato; pezzi di bietola nera che
galleggiavano nel verde. Sulla zuppiera di porcellana c’erano
delle rose finemente dipinte. Fingevo di esserne particolarmente
interessata e le fissavo senza distogliere gli occhi, volevo farmi
piccola piccola, mentre la tensione nell’aria preannunciava
l’ennesima lite fra i miei.
A
casa nostra tutto era di seconda mano, tranne i piatti del
servizio buono. La madre di Alexandra, mia mamma, li aveva dati ai
miei genitori come regalo di nozze, in quei pochi ‘incontri di
famiglia’ che fecero insieme.
La
leggenda vuole che dopo il matrimonio, celebrato in comune con un
gruppo sparuto di amici e ovviamente l’immancabile zio Casper
nei panni del testimone di nozze, mia madre avesse cercato di
spaccare tutti i suoi regali di nozze. Appena sposati, si erano
fatti di acido nella camera d’albergo scelta per la luna di
miele. Mio padre aveva cercato di fermarla, ma lei era sotto trip.
Pensava che le tazze fossero uccelli che tentavano di volare.
Scaraventò la porcellana contro le pareti a cuori rossi. Diceva
che i cocci erano stupendi. Le schegge bianche sembrano cigni.
Credo
che quella sera, nel nostro appartamento all’undicesimo piano,
la sua faccia non fosse molto diversa da quella che aveva dovuto
avere in quella famosa notte. Buttò a terra bicchieri e posate e
fece volare la tovaglia, urlò a mio padre che era un
irresponsabile, un fallito, un immaturo. Al fragore dei piatti
rotti a terra si sommavano le bestemmie di mio padre, e
le urla di mia madre che quasi perse la voce. Non l’avevo mai
vista perdere il controllo così. Lei riusciva sempre a mantenere
un minimo di calma. Quella volta no. Quella volta era saltato
anche l’ultimo appiglio di normalità a cui mi aggrappavo
disperatamente per tenere insieme i cocci della mia famiglia. Non
capivo bene il significato di quelle parole dure che mia madre urlò
a papà, ma il messaggio che portavano era chiaro: qualcosa fra
loro due si era spezzato; qualcosa che non si sarebbe ricucito mai
piu’.
Arrivò
maggio e questo mi rese un po’ meno infelice, era l’unico mese
in cui un timido sole sbocciava fra le nubi grigie di Londra. Era
lo splendore della primavera, e nel grigiore del mio quartiere
ogni tanto potevo cogliere la bellezza di un piccolo fiore. Tutte
queste piccole cose sono sempre state la felicità di un bambino,
ma nella situazione difficile in cui mi trovavo non potevo
assaporarle come avrei voluto. Quando camminavo per il marciapiede
lungo la strada che portava al mio palazzone, mi si attorcigliava
lo stomaco perché non volevo entrare in quell’appartamento e
trovarmi di fronte la stessa infelice scena. Da quella sera in cui
mia madre impazzì, andai sempre a pranzo da zio Casper. Non avevo
preso precisamente una decisione. Non ci avevo pensato tu. Lo feci
e basta. I miei piedi si fermarono solo davanti la porta della
casa di Casper. Con lui mi sentivo al sicuro. Mi faceva sempre
qualcosina di buono da mangiare e mi insegnava a pelare le patate
e preparare la verdura per il contorno. Mi aiutava a fare i
compiti, dopo mangiavo si sedeva accanto a me e mi spiegava la
matematica oppure mi leggeva qualche brano della mia antologia. Mi
insegnava il significato delle parole che non conoscevo, mi
aiutava a colorare la cartina di geografia fatta a mano con la
carta da lucido.
La
casa dello zio Casper era la mia piccola oasi di felicità. I miei
tutto sommato erano contenti che andassi da lui, perché sapevano
che lì stavo bene; ma credo che sia stato un dispiacere immenso
per loro constatare ormai alla luce del sole il loro fallimento
come genitori. Credo che mia madre abbia pianto tanto in quelle
notti. Mi dispiace non esser mai andata a baciarla la mattina
appena svegliata, non aver avuto l’occasione di dirle quello che
nella mia testolina pensavo; pensavo che anche se le cose non
andavano tanto bene fra lei e papà, io la trovavo la mamma piu’
bella di tutti, e il mio papi sapeva raccontare le barzellette
piu’ divertenti, avremmo potuto farci un sacco di risate
insieme, avrei potuto imparare a decorare cappelli, avrei potuto
attaccare i bottoni e le paillettes per aiutarla o comprare
riviste di motori al papà. Avrei voluto fare un sacco di cose. Il
tempo non me lo permise, perché me li strappò via prima che
riuscissi a fare qualunque cosa: nel maggio del 1987 i miei
genitori morirono in un incidente stradale. Mio padre aveva
bevuto, come sempre; erano andati a trovare dei vecchi amici della
mamma e, nella strada del ritorno, mio padre si era schiantato
contro un muro. Non l’aveva proprio visto. Ci era finito dritto
addosso, centrato in pieno. Il cofano e l’abitacolo della
macchina praticamente non esistevano piu’. La vidi, la nostra
macchina accartocciata su se stessa. E’ un immagine che non mi
si toglierà mai dalla mente.
Ricordo
perfettamente il momento in cui mio zio entrò nel mio
appartamento per prendermi definitivamente con sé. Ero tornata a
casa dal rientro a scuola e non avevo trovato nessuno, così mi
ero messa a disegnare con le gambe che dondolavano dalla sedia del
tavolo della cucina. Quando lo vidi entrare, mi resi subito conto
che era successo qualcosa. Non gli avevo mai visto quell’espressione
in viso. Come descriverla? Era un misto di dolore e rimpianto, ma
soprattutto di partecipazione, partecipazione al mio dolore, a
quello che avrei realizzato pienamente quando sarei cresciuta,
alla perdita enorme che mi aveva riservato il destino. Dev’essere
stato un momento difficilissimo per lui. Come spiegare a tua
nipote di non ancora 8 anni che i suoi genitori non ci sono
piu’? Che non li vedrà mai piu’? Che è rimasta da sola?
Come?
Mi
sedetti sul pavimento, a un angolo della stanza, schiacciandomi la
testa fra le ginocchia.
Eccomi
qua, nella mia casa tranquilla, senza mamma e papà.
Il
frigo emise un ronzio.