- IL DIARIO DI MELISSA -

( Ex fidanzata di Donald Carter)

 

LA MIA INFANZIA CON LO ZIO CASPER

Dal giorno della morte dei miei genitori, iniziai a vivere in casa dello zio Casper. La vita era molto diversa lì. Nella sua casa non c’era quell’atmosfera tesa e deprimente che avevo imparato a conoscere nella mia, quella stessa atmosfera che aveva ucciso l’amore dei miei genitori e reso una ‘bambina difficile’ me. In casa dello zio Casper si respirava profumo di solidarietà. Non ti sentivi giudicato, ma al tempo stesso non ti veniva permesso di fare tutto ciò che volevi; lo zio sapeva spiegarti cos’è bene  e cos’è male con un tono talmente dolce e comprensivo che non potevi fare a meno di dargli ascolto. Mi spiegò che rubare gli smarties al supermarket non era una cosa bella, e che mi sarebbe bastato chiedere a lui se ne volevo un pacchettino. Questo non voleva dire che mi volesse viziare, no. Voleva semplicemente che il mio animo fosse tranquillo. Che non ci fossero problemi o incomprensioni. Averlo vicino era come sapere che, qualunque cosa fosse successa, non sarei stata da sola, perchè lui sarebbe stato sempre pronto ad aiutarmi.

Certo vivere con lui non era un’esperienza esattamente ‘normale’. Casper aveva degli amici a dir poco particolari. Non sapevo nulla della droga. Lo scoprii solo piu’ avanti, all’inizio delle scuole medie. Mio zio si bucava. Si faceva di eroina. Devo dire che fu sempre molto attento a fare in modo che io non lo vedessi. Avrebbe potuto farmi un certo che, decisamente. Ha sempre cercato di proteggermi, in tutte le maniere. Ero il suo piccolo cucciolo randagio.

Casper e i suoi amici stavano in salotto a fumare erba, io stavo lì con loro, passavo da un braccio all’altro, coccolata da tutti. Ero la loro mascotte. Questo mi piaceva, mi faceva sentire importante, mi faceva sentire amata. Avevo tantissimo bisogno di essere amata. Stare da sola mi metteva ansia. Volevo sempre avere qualcuno accanto.

Casper arrivò a portarmi con sé in officina, pur di non vedermi triste quando mi lasciava a casa per andare a lavoro. Io, dal canto mio, non credo di essergli mai stata un peso, lì a lavoro: sapevo stare tranquilla e silenziosa, quando volevo. Ero molto curiosa, però. Gli chiedevo in continuazione cos’era questo, cos’era quello, come funzionava quest’altro. Casper mi arruffava i capelli e diceva: ‘diventerai la centaura piu’ brava di tutte’, e sorrideva. Io non avevo mai capito bene quale fosse il collegamento fra quegli esseri strani mezzi cavalli e mezzi uomini che vedevo nei cartoni animati e la passione per le moto, ma sorridevo lo stesso. Qualunque cosa intendesse, doveva essere una cosa bella, e per me quella consapevolezza era piu’ che sufficiente.

Iniziai ad essere sempre piu’ interessata a quel mondo così poco adatto ad una bimba di quell’età. Ritagliavo le figure delle moto piu’ belle dalle riviste dello zio Casper (ricordo i suoi sguardi di rimprovero tra il divertito e il minaccioso, quando mi scopriva intenta a disintegrare a colpi di forbice le sue amate riviste e il mio tenerissimo senso di colpa) e le incollavo con la colla stick nel mio diaretto di scuola. Avevo il diario della motogp, trovato a pochi dollari in un discount vicino a casa nostra. Faceva la sua bella figura quand’era sul banco, in bella mostra accanto ad una sfilza di copertine luccicanti con la faccia plasticosa di quella schifo di Barbie o con le faccine blu dei Puffi.

Sì, ero decisamente una bambina particolare.

Quegli anni a casa dello zio Casper credo furono i piu’ sereni della mia vita. Ero in quell’età di mezzo tra la totale incoscienza e beatitudine dell’infanzia all’inizio di una certa coscienza di sé che iniziava a farsi sentire verso i 9-10 anni. Vedevo Casper con delle espressioni strane, che barcollava, ma non collegavo tutto questo alla droga; tuttavia, non mi dava fastidio, non mi spaventava; si trattava solo di una delle stranezze dello zio, e io l’accettavo in quanto parte integrante della sua vita, della vita di chi mi aveva salvato, della vita dell’unica persona fidata che avevo al mondo. Dal canto mio, Casper avrebbe potuto anche avere i peggiori scheletri nell’armadio del mondo, ma io avrei continuato sempre e comunque ad amarlo come madre e padre insieme. Avevo 10 anni, quinta elementare. Non che me l’abbia proposto lui, eh. Frugai nelle sue tasche e trovai il pacchetto di sigarette con dentro l’accendino. Ve l’avevo detto che ero una bambina curiosa.

Armeggiai con l’accendino per un quarto d’ora buono, non capire come funzionava mi mandava in bestia. Mi faceva sentire stupida, incapace. In quel momento, Casper rincasò da lavoro. Ero in soggiorno, lo sentivo affaccendarsi in cucina. Probabilmente si stava rollando una canna, stava leccando i lembi della cartina bianca con la punta rosa della lingua. Io ormai ero sull’orlo delle lacrime, nervosissima. Sbuffai, un sospiro che sapeva di pianto.

‘Stai bene piccola?’ urlò. Devo dargliene atto. Non mi ha mai detto di sorridere e non è mai entrato in camera mia.

Scesi dalla sedia, la sigaretta in una mano e l’accendino nell’altra, e mi sedetti in silenzio al tavolo della cucina. Faccia cupa. Dovevo sembrare un piccolo Buddha imbronciato in salopette azzurra. Casper aveva messo a bollire il rabarbaro, che usciva dalla pentola macchiando il fornello che avevo appena finito di pulire. Casper mi guardò, un po’ divertito, un po’ perplesso.

‘Ehi, piccola, dove l’hai presa quella?’ domandò, amichevole. Alzai gli occhi verso di lui, riemergendo dal mio broncio. ‘L’ho trovata. Nel taschino della tua giacca blu. Ma non so come funziona’ risposi io, concludendo con uno sbuffo ancora piu’ sentito di quello precedente. L’ultima frase costò una piccola umiliazione al mio orgoglio. Casper sorrise. ‘Non è una cosa bella da imparare, lo sai questo piccola?’ disse. Io non risposi, lo guardai un po’ incuriosita e un po’ scazzata. Lo zio trattene una risata. ‘E va bene, ti insegno io. Ma ascolta lo zio Casper, meglio che continui con quelle di cioccolata, almeno per qualche annetto’ aggiunse con tono ironico, sfilandomi la sigaretta dalle mani e accendendola. Lo guardai a bocca aperta, cercando di carpire il suo segreto. Il mio piccolo pollice aveva già un solco nero, il suo invece era perfetto. Cavoli, che smacco. Casper sorrise. ‘Aspira a fondo, attenzione a non tossire’ mi spiegò, con lo stesso tono con cui mi avrebbe spiegato come scartare un chupa-chups. Segui le sue indicazioni. Non tossii. Ero orgogliosissima del mio successo. Il sapore acre del fumo non mi piaceva, ma ero decisa ad andare fino in fondo alla mi avventura.

 Casper si sedette accanto a me, guardando fuori dalla finestra nel grigio cielo di Londra, mentre si accendeva lo spinello. Iniziò a parlare degli alberi. In realtà non lo ascoltavo, ero troppo presa dalla mia ultima conquista. E poi lo avevo già sentito altre volte, quel discorso. Gli alberi dell’Eden. Gli alberi del Paradiso. Non appena fosse arrivata l’estate, ce ne saremmo andati a Tofino, diceva.  Nelle foreste, diceva, avrebbe costruito un casa con le proprie mani, e avremmo dormito guardando le stelle. Pensava che dovessi andare con lui e imparare i fondamenti della carpenteria. Non avevo la minima idea di cosa fosse la ‘carpenteria’, ma di certo suonava come qualcosa di poco interessante per il mio carattere turbolento, avventuroso e inquieto. Ma non potevo certo dirgli che la carpenteria non mi interessava affatto.

Non glielo dissi mai.

Io e lo zio Casper mangiammo la zuppa di rabarbaro davanti alla tv. La nostra tv. Avevamo un vicino che ci dava sempre la sua roba usata. Tostapane e asciugacapelli, un computer, e ora anche la tv. Probabilmente pensava che per noi fosse giunto il momento di entrare nell’era dell’elettronica.

In televisione c’era Ronald Reagan che sorrideva sotto un cappello da cowboy. Sembrava un cowboy felice.

‘Ti prendo’, stava dicendo Casper. Si avvicinò allo schermo. ‘Ti prendo’, disse, e picchiettò sullo schermo.

‘Zio Casper.’

Era abbastanza fumato. Non credo se ne rendesse conto.

Ronald Reagan continuò a sorridere.

 

 

Lo zio Casper era tutto ciò che avevo, e si era dato così tanto da fare per me. Aveva un cuore buono. Forse potreste pensare che, se non è stata colpa dei miei genitori, morti troppo presto per starmi accanto negli anni della scuola, allora è colpa sua se sono quello che sono, se ho fatto quel che ho fatto.

Beh, sapete che vi dico?

Date la colpa alla marijuana. Alla guerra del Vietnam. A Michael Gorbaciov. A un sacco di cose insieme. Ma non datela allo zio Casper. Era solo una persona tranquilla, che si viveva la sua vita pacificamente. Era un mucchio di cose. Era.

Oppure non date la colpa a niente. Chiamatelo destino inevitabile, sorte predestinata dell’amore. Chiamatelo karma, tutto a puttane, la danza dei lupi. Vivetela, amatela, chiamatela vita. Chiamatelo Led Zeppelin, chiamatelo Joe Strummer. Sì, sì. Perché non me ne frega proprio, ma proprio un cazzo di niente.

 

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