Dal
giorno della morte dei miei genitori, iniziai a vivere in casa dello
zio Casper. La vita era molto diversa lì. Nella sua casa non
c’era quell’atmosfera tesa e deprimente che avevo imparato a
conoscere nella mia, quella stessa atmosfera che aveva ucciso
l’amore dei miei genitori e reso una ‘bambina difficile’ me.
In casa dello zio Casper si respirava profumo di solidarietà. Non
ti sentivi giudicato, ma al tempo stesso non ti veniva permesso di
fare tutto ciò che volevi; lo zio sapeva spiegarti cos’è bene
e cos’è male con un tono talmente dolce e comprensivo che
non potevi fare a meno di dargli ascolto. Mi spiegò che rubare gli smarties
al supermarket non era una cosa bella, e che mi sarebbe bastato
chiedere a lui se ne volevo un pacchettino. Questo non voleva dire
che mi volesse viziare, no. Voleva semplicemente che il mio animo
fosse tranquillo. Che non ci fossero problemi o incomprensioni.
Averlo vicino era come sapere che, qualunque cosa fosse successa,
non sarei stata da sola, perchè lui sarebbe stato sempre pronto ad
aiutarmi.
Certo
vivere con lui non era un’esperienza esattamente ‘normale’.
Casper aveva degli amici a dir poco particolari. Non sapevo nulla
della droga. Lo scoprii solo piu’ avanti, all’inizio delle
scuole medie. Mio zio si bucava. Si faceva di eroina. Devo dire che
fu sempre molto attento a fare in modo che io non lo vedessi.
Avrebbe potuto farmi un certo che, decisamente. Ha sempre cercato di
proteggermi, in tutte le maniere. Ero il suo piccolo cucciolo
randagio.
Casper
e i suoi amici stavano in salotto a fumare erba, io stavo lì con
loro, passavo da un braccio all’altro, coccolata da tutti. Ero la
loro mascotte. Questo mi piaceva, mi faceva sentire importante, mi
faceva sentire amata. Avevo tantissimo bisogno di essere amata.
Stare da sola mi metteva ansia. Volevo sempre avere qualcuno
accanto.
Casper
arrivò a portarmi con sé in officina, pur di non vedermi triste
quando mi lasciava a casa per andare a lavoro. Io, dal canto mio,
non credo di essergli mai stata un peso, lì a lavoro: sapevo stare
tranquilla e silenziosa, quando volevo. Ero molto curiosa, però.
Gli chiedevo in continuazione cos’era questo, cos’era quello,
come funzionava quest’altro. Casper mi arruffava i capelli e
diceva: ‘diventerai la centaura piu’ brava di tutte’, e
sorrideva. Io non avevo mai capito bene quale fosse il collegamento
fra quegli esseri strani mezzi cavalli e mezzi uomini che vedevo nei
cartoni animati e la passione per le moto, ma sorridevo lo stesso.
Qualunque cosa intendesse, doveva essere una cosa bella, e per me
quella consapevolezza era piu’ che sufficiente.
Iniziai
ad essere sempre piu’ interessata a quel mondo così poco adatto
ad una bimba di quell’età. Ritagliavo le figure delle moto piu’
belle dalle riviste dello zio Casper (ricordo i suoi sguardi di
rimprovero tra il divertito e il minaccioso, quando mi scopriva
intenta a disintegrare a colpi di forbice le sue amate riviste e il
mio tenerissimo senso di colpa) e le incollavo con la colla stick
nel mio diaretto di scuola. Avevo il diario della motogp, trovato a
pochi dollari in un discount vicino a casa nostra. Faceva la sua
bella figura quand’era sul banco, in bella mostra accanto ad una
sfilza di copertine luccicanti con la faccia plasticosa di quella
schifo di Barbie o con le faccine blu dei Puffi.
Sì,
ero decisamente una bambina particolare.
Quegli
anni a casa dello zio Casper credo furono i piu’ sereni della mia
vita. Ero in quell’età di mezzo tra la totale incoscienza e
beatitudine dell’infanzia all’inizio di una certa coscienza di sé
che iniziava a farsi sentire verso i 9-10 anni. Vedevo Casper con
delle espressioni strane, che barcollava, ma non collegavo tutto
questo alla droga; tuttavia, non mi dava fastidio, non mi
spaventava; si trattava solo di una delle stranezze dello zio, e io
l’accettavo in quanto parte integrante della sua vita, della vita
di chi mi aveva salvato, della vita dell’unica persona fidata che
avevo al mondo. Dal canto mio, Casper avrebbe potuto anche avere i
peggiori scheletri nell’armadio del mondo, ma io avrei continuato
sempre e comunque ad amarlo come madre e padre insieme. Avevo 10
anni, quinta elementare. Non che me l’abbia proposto lui, eh.
Frugai nelle sue tasche e trovai il pacchetto di sigarette con
dentro l’accendino. Ve l’avevo detto che ero una bambina
curiosa.
Armeggiai
con l’accendino per un quarto d’ora buono, non capire come
funzionava mi mandava in bestia. Mi faceva sentire stupida,
incapace. In quel momento, Casper rincasò da lavoro. Ero in
soggiorno, lo sentivo affaccendarsi in cucina. Probabilmente si
stava rollando una canna, stava leccando i lembi della cartina
bianca con la punta rosa della lingua. Io ormai ero sull’orlo
delle lacrime, nervosissima. Sbuffai, un sospiro che sapeva di
pianto.
‘Stai
bene piccola?’ urlò. Devo dargliene atto. Non mi ha mai detto di
sorridere e non è mai entrato in camera mia.
Scesi
dalla sedia, la sigaretta in una mano e l’accendino nell’altra,
e mi sedetti in silenzio al tavolo della cucina. Faccia cupa. Dovevo
sembrare un piccolo Buddha imbronciato in salopette azzurra. Casper
aveva messo a bollire il rabarbaro, che usciva dalla pentola
macchiando il fornello che avevo appena finito di pulire. Casper mi
guardò, un po’ divertito, un po’ perplesso.
‘Ehi,
piccola, dove l’hai presa quella?’ domandò, amichevole. Alzai
gli occhi verso di lui, riemergendo dal mio broncio. ‘L’ho
trovata. Nel taschino della tua giacca blu. Ma non so come
funziona’ risposi io, concludendo con uno sbuffo ancora piu’
sentito di quello precedente. L’ultima frase costò una piccola
umiliazione al mio orgoglio. Casper sorrise. ‘Non è una cosa
bella da imparare, lo sai questo piccola?’ disse. Io non risposi,
lo guardai un po’ incuriosita e un po’ scazzata. Lo zio trattene
una risata. ‘E va bene, ti insegno io. Ma ascolta lo zio Casper,
meglio che continui con quelle di cioccolata, almeno per qualche
annetto’ aggiunse con tono ironico, sfilandomi la sigaretta dalle
mani e accendendola. Lo guardai a bocca aperta, cercando di carpire
il suo segreto. Il mio piccolo pollice aveva già un solco nero, il
suo invece era perfetto. Cavoli, che smacco. Casper sorrise.
‘Aspira a fondo, attenzione a non tossire’ mi spiegò, con lo
stesso tono con cui mi avrebbe spiegato come scartare un chupa-chups.
Segui le sue indicazioni. Non tossii. Ero orgogliosissima del mio
successo. Il sapore acre del fumo non mi piaceva, ma ero decisa ad
andare fino in fondo alla mi avventura.
Casper
si sedette accanto a me, guardando fuori dalla finestra nel grigio
cielo di Londra, mentre si accendeva lo spinello. Iniziò a parlare
degli alberi. In realtà non lo ascoltavo, ero troppo presa dalla
mia ultima conquista. E poi lo avevo già sentito altre volte, quel
discorso. Gli alberi dell’Eden. Gli alberi del Paradiso. Non
appena fosse arrivata l’estate, ce ne saremmo andati a Tofino,
diceva. Nelle foreste, diceva, avrebbe costruito
un casa con le proprie mani, e avremmo dormito guardando le stelle.
Pensava che dovessi andare con lui e imparare i fondamenti della
carpenteria. Non avevo la minima idea di cosa fosse la ‘carpenteria’,
ma di certo suonava come qualcosa di poco interessante per il mio
carattere turbolento, avventuroso e inquieto. Ma non potevo certo
dirgli che la carpenteria non mi interessava affatto.
Non
glielo dissi mai.
Io
e lo zio Casper mangiammo la zuppa di rabarbaro davanti alla tv. La
nostra tv. Avevamo un vicino che ci dava sempre la sua roba usata.
Tostapane e asciugacapelli, un computer, e ora anche la tv.
Probabilmente pensava che per noi fosse giunto il momento di entrare
nell’era dell’elettronica.
In
televisione c’era Ronald Reagan che sorrideva sotto un cappello da
cowboy. Sembrava un cowboy felice.
‘Ti
prendo’, stava dicendo Casper. Si avvicinò allo schermo. ‘Ti
prendo’, disse, e picchiettò sullo schermo.
‘Zio
Casper.’
Era
abbastanza fumato. Non credo se ne rendesse conto.
Ronald
Reagan continuò a sorridere.
Lo
zio Casper era tutto ciò che avevo, e si era dato così tanto da
fare per me. Aveva un cuore buono. Forse potreste pensare che, se
non è stata colpa dei miei genitori, morti troppo presto per starmi
accanto negli anni della scuola, allora è colpa sua se sono quello
che sono, se ho fatto quel che ho fatto.
Beh,
sapete che vi dico?
Date
la colpa alla marijuana. Alla guerra del Vietnam. A Michael
Gorbaciov. A un sacco di cose insieme. Ma non datela allo zio Casper.
Era solo una persona tranquilla, che si viveva la sua vita
pacificamente. Era un mucchio di cose. Era.
Oppure
non date la colpa a niente. Chiamatelo destino inevitabile, sorte
predestinata dell’amore. Chiamatelo karma, tutto a puttane, la
danza dei lupi. Vivetela, amatela, chiamatela vita. Chiamatelo Led
Zeppelin, chiamatelo Joe Strummer. Sì, sì. Perché non me ne frega
proprio, ma proprio un cazzo di niente.